Il mistero della “tripla A” inglese

Parlare dell’Inghilterra ha una certa azione evocativa nella mente di chiunque si definisca liberale. E’ stata la patria della moderna democrazia che nacque con l’emanazione della Magna Charta; la culla della rivoluzione industriale, che portò nel lungo periodo un benessere mai conosciuto prima nel mondo, e fu lo Stato da cui partì la rivoluzione liberale che culminò con il governo di Mrs. Thatcher.

Tuttavia, da diverso tempo la Terra di Albione si presenta ai più come una nazione in crisi, afflitta da alcune criticità che l’hanno fatta entrare nel club degli Stati meno performanti dell’Unione Europea, tanto da modificare l’acronimo coniato per definirli in PIIGS (Portogallo, Irlanda, Inghilterra, Grecia e Spagna… con una curiosa e momentanea esclusione dell’Italia dal novero).

Cosa è successo in questi anni tanto da trasformare uno Stato storicamente ricco in una terra in crisi che qualche maligno additava come prossima al default, ma che mantiene, in ogni caso, un AAA rating da parte di tutte le Agenzie?

Sicuramente la prima causa potrebbe essere ricercata nella composizione del PIL inglese, oggi il 73% di questo dipende esclusivamente dal settore terziario, principalmente servizi finanziari, mentre il ramo industriale è andato mano a mano scemando negli anni seguenti alla rivoluzione thatcheriana che, liberalizzando i mercati, spinse molti imprenditori alla ricerca di settori di azione a più alto valore aggiunto rispetto alla classica manifattura così come spinse i giovani a cercare sbocchi occupazionali più redditizi rispetto all’attività di operaio o di artigiano. Sembrerebbe ovvio, però, che queste siano delle giustificazioni riduttive e, forse, un tanto ideologiche a quella che si può definire come la peggiore crisi inglese dall’epoca bellica.

La vera causa della sopita crisi inglese va ricercata oltreoceano con l’abolizione del Glass Steagal Act negli USA, che permise la concentrazione delle attività bancarie di investimento, di credito e di retail a ogni singolo istituto, similmente al modello di “banca universale” tedesco, ed una politica fiscale favorevole per la domiciliazione dei fondi di investimento presso il mercato londinese. La possibilità di investimenti ad “alta leva” e la nascita di nuove istituzioni finanziarie sul territorio spinsero lentamente verso la trasformazione del regno da potenza industriale a potenza finanziaria, dove è l’industria dei servizi a alto valore aggiunto la motrice dell’economia.

Questa impostazione, è evidente, è fenomenale in tempi di espansione economica, ma ha una debolezza intrinseca, quella della pro-ciclicità ai fenomeni economici, in tempo di espansione. Quindi, premette una crescita della ricchezza impensabile in un’economia manifatturiera, ma in tempi di crisi la contrazione è più accentuata tanto che, con l’esplosione delle bolle speculative degli anni ’90, si è pensato di stimolare i consumi con una politica espansiva basata sulla leva del credito, sia fondiario sia revolving seguendo l’esempio americano. Ad un occhio attento non sfugge la criticità di questo modello. Basando i consumi e la crescita non su risparmio e investimento bensì sulla facilità di accesso al credito si crea una situazione di solvibilità dubbia nel lungo periodo e si aumenta a dismisura la base monetaria M3 che potrebbe, in seguito, creare effetti inflazionistici.

Con il fallimento di Lehman Brothers, quindi, la fiducia nel sistema bancario cominciò a vacillare, dopo aver già incassato dei colpi piuttosto pesanti sul fronte della credibilità con i casi di Argentina e Islanda, tanto che, alle prime voci di crisi di liquidità un istituto come Northern Rock fu preso d’assalto dai clienti per estinguere le proprie posizioni e preservare i risparmi. Ancora sono nella memoria le lunghe file agli sportelli della banca che, in seguito, fu nazionalizzata nel febbraio 2008 per evitare ulteriori contraccolpi sul mercato. Stessa sorte toccò anche a Royal Bank of Scotland, uno degli istituti primari del Regno Unito, che, indebolita dall’assorbimento di Abn Amro insieme a Santander e Fortis Bank, non riuscì a garantire la solvibilità dei sui depositi e delle obbligazioni emesse sul mercato tanto da essere, formalmente, nazionalizzata con due operazioni, del novembre 2008 e del novembre 2009, che portarono lo stato britannico a detenere oltre l’84% del capitale della banca.

Per far fronte a questi impegni, che sarebbero gravati pesantemente sul bilancio dello stato che già mostrava un tendenziale del debito sovrano al 100%, l’allora Primo Ministro Brown, in concerto con il Governatore di Bank of England, dispose delle pesanti operazioni di quantitative easing sul debito e, inoltre, un bailout sullo stesso al fine di monetizzarne una parte consistente e accettando il possibile shock inflazionistico futuro in caso di ripresa economica. Fortuna volle che la crisi si accentuò e il credit crunch seguente intaccò M3 riducendo le spinte inflazionistiche che, pur con un tendenziale nel 2010 al 5,5%, si sono assestate in un tasso odierno del 3,3%, più che sostenibile dalla crescita media dei salari locali.

Oggi, quello che spaventa di più della situazione del Regno Unito è la composizione del debito: a un debito sovrano formalmente pari a circa il 67% del PIL (nonostante questo sia in forte riduzione in termini reali) si riscontra un altissimo indebitamento privato, oltre il 100% del PIL, composto sia da mutui fondiari, sia da crediti personali, sia da debiti per pensioni (che non rientrano nel computo del debito sovrano, al contrario di quello che avviene in Italia, a esempio) e dal credito al consumo.

Nonostante questi punti di forte criticità, però, la Gran Bretagna continua ad avere un AAA investment rating, inspiegabile agli occhi di tanti, visto che le problematiche insite nel sistema sono, forse, addirittura più preoccupanti di quelle italiane che, a fronte di un elevato debito sovrano, tendente al 120% del PIL, può contare su un debito privato bassissimo, quasi tutto incentrato sui mutui fondiari per l’acquisto della prima casa di abitazione, e un settore manifatturiero piuttosto performante, nonché ad altissimo valore aggiunto, tanto che gli ordinativi esteri sono oggi in forte ripresa. Le Agenzie di rating, però, hanno degradato il giudizio sull’Italia a BBB+, indicandone un certo pericolo insito nella solvibilità del debito.

Da cosa nasce questa disparità? Maliziosamente la ragione potrebbe essere ricercata negli asset proprietari di Moody’s e S&P che vedono la presenza di numerosi fondi di investimento con posizioni rilevanti all’interno degli stessi, fondi che hanno base a Londra e fanno capo, alcuni, ai più importanti finanzieri mondiali. Maliziosamente, si dice, ma a pensar male…

Fonte: TheFielder